“Come un selvaggio” – Una storia di follia

Come un selvaggio. Una storia di follia

Quando io e l’operatrice sociale che mi accompagna, Lisa, arriviamo all’ingresso del complesso di case popolari, Alberto è intento a fare segni della croce in rapida sequenza. Si trova di fronte a una celletta votiva posta sopra l’ingresso della portineria: l’immagine di Maria, un cero acceso, un piccolo vaso di fiori. Al fianco di Alberto si trova Gino, suo fratello.

Alberto è subito gentile. Sorriso spontaneo. Pelle del volto e del collo arrossata. Rasatura recente. Un lungo e apparentemente profondo taglio percorre il padiglione auricolare sinistro, sconfinando nel lobo. Sanguina.

Lisa glielo fa notare, chiedendo se si è tagliato rasandosi. Alberto è sorpreso. Che ne sa. Mica se n’è accorto. Lisa gli disinfetta la ferita. Con un altro sorriso Alberto ci accompagna verso il suo appartamento. Ha ecceduto con il dopobarba. Potrei seguirlo anche a occhi chiusi.

Prima ancora che Alberto apra la porta il forte profumo di dopobarba scompare. A dissolverlo è un odore nauseante, un mix olfattivo composto da un insieme di fetori vari. Nell’appartamento, questo odore ti avvolge, tiepido e pesante.

“Nei primi tempi,” mi dice Lisa, “questo odore era ancora peggio. Alcuni operatori entravano, aprivano la finestra che dà sul balcone e vomitavano.”

Anche noi entriamo. Anche noi apriamo la finestra che dà sul balcone. Però nessuno vomita. L’odore, seppure ancora intenso, è sopportabile. Anche se la vicina ci dirà che, ancora adesso, ci sono giorni nei quali è costretta a tenere aperte le sue finestre per poter respirare.

Eccoci entrati. Un soggiorno nel quale si apre un piccolo vano cucina. Un bagno che si estende in lunghezza. Una camera da letto. Le porte di tutte le stanze sono aperte.

Prima o dopo essersi rasato, Alberto ha lavato il pavimento del bagno. Acqua a profusione e abbondante detersivo, insieme allo sporco disciolto, formano una sorte di palude. Una palude pericolosa. Mentre faccio le riprese in bagno, un paio di volte scivolo, rischiando una goffa (come sarebbe nel mio stile) quanto rovinosa caduta.

Camera da letto. Letto a una piazza, con la testata appoggiata al centro della parete. Un comodino e una sedia che si intravedono appena, sommersi da mucchi di vestiti. Due armadi.

All’interno del vano cucina ci sono solo sacchetti pieni di qualcosa. Sacchetti, sacchetti e basta. Non una cucina, né un frigo. Sacchetti.

“Spesso,” mi spiega Lisa, “Alberto compra dei tramezzini e dei panini al bar qui sotto e li mette, tutti dentro un sacchetto, in cucina. Mangiato il primo, gli altri magari se li dimentica per giorni, tanto che, spesso, oltre che di muffa si riempiono anche di larve. Ciò accade perché Alberto molte volte si rifiuta di aprire all’operatrice che settimanalmente si reca da lui, oppure non è in casa ma a vagabondare da qualche parte.”

Ora ci troviamo in soggiorno.

Piazzo il cavalletto della videocamera* in mezzo a una dozzina di scarafaggi morti stecchiti. Ce ne sono molti, stesi a zampe in su sul pavimento del soggiorno. Di vivi, non se ne vedono. L’aspetto curioso è che, pavimento con cadaveri a parte, alla vista il soggiorno appare pulito e in ordine.

Ed ecco che Alberto comincia a raccontare episodi della sua vita: un ricovero in ospedale quando era giovane, un amore ora finito, la morte dei genitori, il lavoro di un tempo. Non solo Alberto parla con vivacità e ritmo ma dà anche vivacità, ritmo e ironia alle rievocazioni, ai ricordi che narra. Quello che emerge dalla sua testimonianza, nonostante alcuni interventi di Lisa, è una completa mancanza di consapevolezza riguardo alla sua situazione attuale.

Poi è il turno di Gino, il fratello di Alberto. E Gino, della situazione attuale, si dimostra consapevole eccome. Racconta che per molti anni lui e Alberto si sono persi di vista e che quando si sono ritrovati ha cominciato a darsi da fare per aiutare il fratello.

“Alberto è così da quando ha perso nostra madre” spiega. “Gli è venuta una depressione poi non si è più ripreso”. Continua: “È come un selvaggio, non vuole né telefono né altro, avete visto, non ha neanche il frigo, fa i suoi bisogni nel punto dell’appartamento dove si trova quando sente lo stimolo. Ma lui sta bene così, guai a togliergli le sue abitudini”. Rivolto a Lisa: “Meno male che ci siete voi e altri che se ne fanno carico, perché altrimenti non so come finirebbe. Non lo si può contattare, a volte non apre la porta, spesso va in giro a vagabondare – certe volte lo picchiano.”

Conclude:

“Queste persone hanno bisogno di qualcuno che le aiuti, perché non si rendono conto dei problemi che hanno, o non vogliono rendersene conto, e lasciate da sole finirebbero molto male.”

Nel corso delle riprese, Alberto ha più volte manifestato l’intenzione e il piacere di offrirci un caffè al bar, una volta finito. Prima ancora di uscire in cortile, Lisa mi dice:

“Adesso si mette a correre in modo ridicolo, riprendilo!”.

Appena fuori, Alberto parte. E, sì, lo stile della corsa è tale da suscitare una certa ilarità.

“Riprendilo!” insiste Lisa.

“No.”

“Perché? Così al convegno rideranno tutti!”.

Appunto.

p.s.: i nomi non corrispondono a quelli reali

* Il servizio video sarebbe stato proiettato, insieme ad altri che avevo o che avrei realizzato, in un convegno nel quale sarebbero stati presenti, oltre a operatori del settore, anche autorità di vario tipo.


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