Sono passati tanti anni. Mi trovo all’interno dell’università. Il professore di Letteratura Italiana mi aspetta in corridoio, davanti alla Sala lettura dei docenti. Qualche giorno prima gli ho dato una raccolta di miei racconti e una di mie poesie, chiedendogli un parere.
Nel corridoio vanno e vengono studentesse e studenti, più qualche professore. Voci che si intrecciano, accompagnate dal suono di passi dai ritmi disuguali. La sala lettura è un altro mondo. Su ogni tavolo – massiccio, di legno scuro – c’è una lampada che emette una calda luce soffusa. Silenzio. Oltre a noi, ci sono solo due o tre persone. Ci sediamo a un tavolo. Il prof. Mi porge le poesie (fogli A4 rilegati con spirale). Io dico qualcosa del tipo “Niente da fare, eh?”. Il prof. Fa un sorrisetto: incisivo e fugace emblema di un’onesta critica letteraria. Da qualche parte, una delle due o tre persone si raschia la gola.
Il prof. passa ai racconti. Quelli gli sono piaciuti. Mi spiega il perché in modo incisivo ma non fugace. Conclude: “…e, soprattutto, lei sa cosa non scrivere”. Agli occhi di qualcuno potrebbe non sembrare proprio il complimento del secolo. Invece io l’ho considerato, e lo considero ancora oggi, al tempo stesso il più bel complimento e l’insegnamento migliore che abbia mai ricevuto sullo scrivere. E non solo su quello.
Banalità, luoghi comuni, situazioni straviste, frasi fatte, stereotipi… A volte perché li troviamo davvero adatti a quanto stiamo scrivendo, altre volte solo per pigrizia, ci capita di usarli. Ma sapere cosa non scrivere, mi ha insegnato quel professore tanti anni fa, significa evitare tutto questo. Assumere nuovi punti di vista. Cambiare prospettive. Sperimentare. Mettersi in gioco.
Anche se le sue labbra erano dolci come il miele.